pagine 168 | prezzo 12,00€ | cm 14,5,x21

Sconfitte non del tutto autobiografiche, raccolta postuma (e unica) di Enzo Giarmoleo, è un libro schietto, “diverso”, forte e struggente: è l’espressione viva e bruciante di uno tra i pochi poeti italiani contemporanei assimilabili all’intrepida famiglia ideale di Kerouac, Ginsberg e Ferlinghetti o a quella dei maestri zen (da Han Shan a Ryokan a Santoka) cultori della provocazione caustica e sottile, dell’ironia pungente e del paradosso. Nella voce di Giarmoleo lo stupore estatico davanti alla bellezza della natura si coniuga con l’indignazione di fronte alle violenze inarrestabili della guerra e alle falsità della politica, col disgusto per tutte le espressioni d’ipocrisia (comprese quelle presenti nell’opera di molti poeti-divi), con un fastidio radicale per ogni forma di retorica e per ogni manifestazione di rigidità, di durezza ideologica, di sclerosi del pensiero. Un bisogno inesausto di esplorare la terra degli uomini, di osservarla nei suoi doni e nelle sue atroci contraddizioni muove di continuo l’anima, il corpo e il linguaggio di questo poeta viandante che ha speso buona parte della vita al fianco dei più reietti, dagli homeless di Milano ai contadini dell’India, dai combattenti zapatisti agli emarginati della banlieue parigina. Grazie soprattutto all’incontro con l’opera di Gary Snyder, Giarmoleo ha riscoperto lo spirito della wilderness, quella parte “selvatica” – irriducibile al cosiddetto buonsenso come ai diktat del Potere – che vibra dentro ciascuno di noi in attesa del nostro coraggio, della nostra umanità e della nostra passione. Solo osando avventurarci tra i sentieri selvaggi, corrosivi e delicati di una poesia nuda e totale, solo sfuggendo a quegli ingranaggi della Volontà di Potenza che continuano a soffocare la storia, potremo tornare a riconoscere quanta bellezza si annidi perfino nelle cose e nelle creature più piccole e inermi: le “liane di seta” che si aggrappano ai muretti, i germogli che bucano gli asfalti, i fili d’erba che illuminano i momenti “lontano dall’intrigo melmoso” della follia.


La nostra epoca vive la parossistica esperienza di una potenza che, incapace di tradursi in atto, si converte nel suo contrario, consegnando alla paralisi forme d’esistenza sospese, caratterizzate dal senso di inadeguatezza, terrorizzate dalla possibilità di compiere scelte sbagliate, negli amori quanto nel lavoro, o invischiate in dipendenze morbose. Forme di disagio sempre più contraddistinte da un radicale ritiro d’investimento psico-emotivo dal mondo delle relazioni che, nell’illusione di poterla preservare, inaridisce l’esistenza privandola della possibilità di attivare potenzialità d’essere che possono rivelarsi e prendere forma solo nell’incontro con la vita. Eco di ferite ambientali che hanno intaccato il senso di sé ed eroso la capacità di aprirsi fiduciosamente alla vita e agli altri, simili comportamenti appaiono caratterizzati da una logica autoimmune che finisce per amplificare le paure e i pericoli dai quali vorrebbe proteggere. Seguendo l’approccio dell’analisi biografica a orientamento filosofico, l’autore cerca di spiegare come sanare le ferite che ci hanno portato a vivere il possibile come cifra di tutte le nostre angosce, per riconoscerlo piuttosto come luogo di espressione e trasformazione di ciò che siamo, nell’incontro con il mondo, finalmente sperimentato come opportunità per rilanciare la capacità di prendere parte alla vita e alle sue potenzialità, in forme più autentiche e individuative.


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