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Un essere ossuto è il libro della piena maturità di Rosalia Zabelli, una fra le voci più originali e segrete della nostra poesia.
Il fascino primo dei quattrocentotrenta haiku che lo compongono sprigiona dalla frizione, dalla tensione capace di innestarsi tra la mite inflessibilità della forma strofica (tre versi, secondo canone: metricamente peraltro più liberi) e l'”enorme dire” che la sostanzia e la sfida. Idealmente divisi per gruppi tematici (le donne, le rane, un “si è” impersonale che avrebbe fatto la gioia di Lévinas e di Blanchot, io, Dio…), talvolta questi haiku veicolano un’osservazione “naturale”, talaltra precipitano schegge di un’interiorità senza requie: nell’un caso e nell’altro, quel che si imprime sulla pagina è un particolare (minimo ma decisivo spostamento di prospettiva e di sguardo), in grado di perturbare tutto quel che sapevamo, o avevamo la presunzione di sapere, sull’oggetto di volta in volta folgorato (compresa colei che dice “io”).
Sferzata da un erotismo incoercibile, la pronuncia ossuta, dura, istantanea, che possiamo immaginare sempre sul punto di cedere alla carnalità che la tenta e finisce quasi immancabilmente per negarlesi, deve riempire il bianco (della pagina, dello stacco fra verso e verso, del silenzio) da cui è accerchiata. Ma questo bianco è la sua fortuna. Un essere ossuto sta scritto nei suoi frammenti di parole quanto nel vuoto che le contorna: ed è questo vuoto che lo sposta, che suscita echi ed aloni, che lo strappa alla dura terra senza orizzonte a cui è inchiodato, per slanciarlo incessantemente oltre ogni possibile e impossibile confine.
Stefano Lecchini