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Tesi, spogli e traslucidi, incisi nella lingua come aspri e pungenti grani di un moderno rosario, i versi di Tino Di Cicco ci costringono a osservare con occhi impietosi la sordità del nostro mondo all’appello della poesia. Davvero poco importa che molti tra noi considerino i versi dei poeti un “borbottio” di matti o un parlare “in nome di qualcosa/che non c’è”: Di Cicco sa ricordarci che solo la poesia potrebbe, affrancandoci dai nostri limitati punti di vista e dalla nostra schiavitù nei confronti delle apparenze, aiutarci a ritrovare i sentieri interrotti della verità, e in essi il filo segreto che lega l’essere al nulla, il “pieno” al “vuoto”, i fenomeni a ciò che li trascende. Per Di Cicco la poesia non può essere che la voce in grado di rigettarci verso “il nulla della gioia”, la vertigine dell’indicibile, la bellezza azzurra dell’incondizionato: quella lingua ineffabile degli angeli, quella musica del silenzio, quella folgorante traccia stellare senza cui il tempo dell’esistenza non può fare a meno di naufragare nel magma delle illusioni, nel vortice “petulante” dell’inautentico.
Inarcata da questa difficile esigenza testimoniale, la poesia di Tino Di Cicco si abbevera ad alcune tra le più alte fonti sapienziali dell’Occidente riuscendo in ogni modo a mantenersi limpida e intatta, non disperdendo mai nei gorghi del pensiero la propria intima, severa trasparenza. Le grandi, audaci meditazioni di Meister Eckhart sulla natura paradossale di Dio; il cammino di Friedrich Hölderlin fra la terra e l'”ultracielo”; le riflessioni di Heidegger su ciò che vela e ciò che svela l’Essere; l’avventura mistica di Paul Celan tra l’azzeramento della parola e la sua rinascita attraverso l’afasìa, la lentezza e i sussulti di un esercizio combinatorio ridotto all’osso: tutto ciò (e molto altro) avvertiamo al fondo delle schegge liriche di Tino Di Cicco, coraggiose incursioni nella “notte” del senso alla ricerca di brucianti, liberatori semi di luce.
Paolo Lagazzi