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Sulla lingua di Claudio Recalcati pare trascorrere, dapprima, un’ombra: il sentimento di un’inadempienza, di una scollatura fra le parole e le cose: il velo, il tremore di un rapporto vacillante, indecidibile col destino. Le parole con cui nominiamo il nostro luogo nel mondo, sembra credere Recalcati, non sono che palliativi, farmaci imperfetti, apparenze votate a migrare come “nuvole di fumo”. Ma tanto più forte preme, al fondo della sua voce, il bisogno di tentare appigli, di lanciare sonde verso le curve sdrucciolevoli del tempo. Al fuoco di questa tensione i versi del poeta si inanellano come “un codice cifrato di sussulti”, come uno sgocciolìo di umori aspri e vinosi. C’è un piacere sottile dell’amarezza in questo canzoniere. Ma il fiele, per una strana alchimia, ha qui, a tratti, anche un sentore straziante e soave di miele o di muschio. Nell’errore e nel dolore cova il seme della bellezza: l’amore, che ferisce per la fatalità del suo sprecarsi, resiste almeno, nel lutto della memoria, come il seme di quell’altrove, come la vertigine di quella tenerezza a cui abbiamo creduto un giorno qualunque della nostra vita.
Paolo Lagazzi