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“- Mastro Venerdì, se avesse l’accortezza di lascarmi di un niente la randa, le sarei molto riconoscente.
Mentre la scotta lenta filava nel bozzello, e la grande vela catturava il vento nella sua bianca pancia, poggiai il timone. L’oceano, quasi immobile, faceva male agli occhi, mentre rifletteva gli accecanti raggi di luce che la larga luna spargeva generosa sulle acque. Le onde si susseguivano placide in lunghi intervalli.
– Padron Robinson! Credo che a oggi siano trecentoventi anni da quando siamo partiti dalla nostra bella isola, siete sicuro di non esservi perso?
Senza voltare la testa così parlai al buon selvaggio.
– Diavolo di un uomo, quando finirete di dubitare? La rotta è precisa, la bussola indica senza tema di errore il nord magnetico, le mappe concordano con la nostra direzione, vorresti dirmi dunque per quale motivo dovrei disperarmi e temere di essere andato fuori rotta? Avrei fatto meglio lasciarvi mangiare dai vostri degni compari piuttosto che sopportare una simile lagna.” Accompagnati dal dialogo fantastico di questi due personaggi letterari, il libro si dispiega nella riflessione sul tramonto del tempo in cui la certezza dell’intero, riempiva la coscienza degli uomini. In una sorta di apologia del naufragio, realtà esperita dell’uomo del terzo millennio, si dispiega nel libro un viaggio rapsodico che attraversa lo scacco della condizione umana, per giungere all’analisi della crisi della psicoterapia contemporanea. Lo psicoterapeuta diviene così, nel filo della narrazione, un bricoleur che non possiede un progetto aprioristico del suo fare analisi, ma che si accinge a riparare la zattera, propria e del paziente, attraverso una cura onirica dettata dal momento e dall’opportunità. Nel testo questa “oniromantica” è esposta ed esemplificata con numerosi sogni, tratti dall’esperienza clinica e che accompagnano costantemente il lettore, aprendo così l’uso del trattato non solo ai medici e agli psicologi, ma soprattutto a chi ricerca la possibilità di un diverso atteggiamento psicologico nella vita.