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L’espansione dell’economia di mercato coincide – come hanno notato Rilke, Simmel, Benjamin – con la progressiva atrofia dell’esperienza del mondo, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con gli oggetti e l’attitudine narrativa a riflettere e comunicare sui fatti vissuti. La familiarità con le cose e con il loro valore d’uso scompare nella caducità dei prodotti dell’industria per il consumo di massa. Questa indifferenza dell’oggetto investe anche la sfera dei rapporti umani. La forma dell’esperienza viene sostituita dalla seduzione delle immagini della mercé, dal bisogno di stimolazione e dall’identificazione con stereotipi e modelli.
Nell’era della dissoluzione della forma, della coincidenza tra vero e falso, dell’apparente disseminazione del fare in pratiche che rispondono al criterio dell’efficienza tecnica e del profitto (un «fare senza immagine», suggerisce Rilke), il pensiero dell’arte mantiene aperta la questione fondamentale della crisi del rapporto tra il soggetto, l’Altro e le cose. In questo senso, la riflessione estetica offre una prospettiva anche alla comprensione di certi disturbi psichici collegati alla crisi dell’esperienza, sofferenze che assumono il significato di sindromi culturali e che si esprimono in comportamenti che il sistema culturale codifica ed etichetta come devianti, per congelare e isolare in quelli la consapevolezza delle proprie tensioni interne. Le psicopatologie appaiono così metafore essenziali per la comprensione dello sfondo culturale che accompagna i mutamenti dello stile di vita e dei modi collettivi dell’esperienza.