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postfazione di Paolo Lagazzi, quarta di copertina di Tomaso Kemeny,
disegno di copertina di Daniela Tomerini
Stelle a Merzò di Adele Desideri si origina dalla trasposizione per frammenti lirico-elegiaci di una storia d’amore appresa “dalla viva voce della protagonista”. Come in un diario-resoconto di una passione estiva, il testo trova il suo incipit il 28 luglio 2009 a Merzò, per concludersi, circolarmente, a Merzò (dopo passi contestualizzati ad Airola, Milano, Ponte di Santa Margherita ecc.) il 31 ottobre 2009.
Il testo può venire recepito come “il cerchio perfetto in cui l’amore fallisce”, una mitica passione, paradossalmente essendo Merzò Comune di Sesta Godano, provincia di La Spezia, Liguria, “Godano” derivando dal longobardo “Wotàn”, niente di meno che il Dio Odino.
Ma nonostante il nome del Comune, che allude agli augurabili godimenti degli innamorati, questa è una storia fisica e metafisica di patimenti tesi faticosamente alla catarsi, trattandosi di una passione che figlia la percezione dell’impossessamento da parte del nulla, o meglio se ne lascia pervadere, come enunciano i versi “Non si può dimenticare / quel rotondo sentimento del nulla / che cresce nel ventre / – ed è un ospite, un intruso”. Le stesse parole che costituiscono il testo risultano come “riti inverecondi, / ancelle dei tuoi sbagli …”.
I panorami, le atmosfere, gli stati d’animo evocati da Adele Desideri vengono sfregiati da squarci di disperazione che giungono a rendere appetibile la stessa morte (“… e non posso dire / quanto sia dolce con te / questo morire…”), tanto da volere bloccare questi momenti di assoluto tormento: “Fermiamo l’orologio, / fermiamola, questa vita / che non ci vuole …”. Cosi la poetessa elabora “il sigillo … alla perduta estate” e l’intensità dell’esperienza evocata tutto crudelmente cancella: “A Merzò resteranno solo ombre, / desolate tracce di una fugata quiete”.
La fine d’un amore qui si raffigura come un’ombra mortale che trascina negli abissi dell’annullamento anche le cose: “La casa che esplodeva d’amore / ora muore…”. La luce stessa appare come aggressiva se non assassina: “In questa luce che travolge / ma non illumina…”.
Nonostante l’oscurità che pervade il mondo femminile alla morte d’un amore, la nostalgia stenta a morire: “Ti aspetterò qui, sul colle di Merzò, / quando il sole all’imbrunire / colora i prati, l’erba selvatica, / le panchine divelte”, e si può arguire che le “panchine divelte” siano la proiezione nel reale di un crollare delle fondamenta dell’io.
La malattia d’amore pare irrimediabile, anche se i versi dell’autrice tendono a portare alla catarsi il lettore sensibile, i mal-aimé alla Apollinaire.
Tomaso Kemeny