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 La culla del tempo e il risveglio edenico sono perduti. Non c’è ritorno. Smarrita è la pace, decaduta è la sicurezza della prima nominazione. Le parole che pronunciamo sono ridotte a semplici segni semantici, strumenti d’intesa. Non sono più essenziali né in terra, né in cielo. La determinazione può avvenire ormai solo attraverso la scissione e la distinzione. L’unità è smarrita. Tra la nostra lingua e la voce della natura non c’è più rispondenza diretta. Ogni conoscenza, ogni comprensione umana cade al di qua dell’esistenza autentica.
Con Prendere la parola, Jean-Luc Nancy segnala che è necessario congedarci dai rassicuranti ancoraggi estetici, dalle tentazioni della hybris tecnologica, e affidarci – quando d’ora in poi prenderemo la parola – a un annuncio balbettante, frammentario, segnato dalle divisioni dello spirito.
Prendere la parola affinché ciò che dev’essere rivelato si levi davanti agli occhi. Prendere la parola affinché ciò che a lungo è stato taciuto possa estrinsecarsi. Prendere atto, con disincanto, che il giorno altro non fa che annunciare ciò che il crepuscolo custodisce.
In Nancy è ben chiaro che la perfezione concettuale e l’esattezza della conoscenza possono occultare la verità. Meglio affidarsi a una scrittura destinata fin dal principio al disordine, all’anti-discorso, all’incompiutezza, fino alla perdizione.
Ospite non riconciliato dello spirito dei tempi, Nancy prende la parola contro la condizione annientante del pallido linguaggio concettuale, il sempre-uguale in abiti ogni volta diversi. Prende la parola per prendere le distanze dalle certezze che, parola per parola, confermano le illusioni e conducono a una verità solo apparente. Prende la parola per cercare nel nostro esserci l’insieme vivente: la connessione più alta tra l’essere umano e ciò che resta della totalità della vita.
Dalla postfazione di Flavio Ermini