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Come per i surrealisti storici, il lavoro di Pietro Coletta è governato da un insieme di imperativi che forma l’indivisibile nucleo filosofico ed esistenziale del suo modo eversivo di pensare l’arte, contraddistinto da una sequenza di legittimazioni e di aspirazioni. Egli riconosce infatti il valore primario delle pulsioni inconsce, ammette la supremazia del principio del piacere su quello della realtà, del sogno sulla veglia, di Eros su Thanatos. Condivide pure il desiderio di scoprire la nuova simbologia che porta in sé, e quello di esprimerla con la massima fedeltà al proprio mondo interiore.
Coletta ritorna spesso sulla dimensione virtuale del suo lavoro, che per lui giustifica sia il carattere dinamico del work in progress, sia la polarità semantica dello stesso, sia la volontà di coinvolgere il fruitore nella sua opera: «Direi che la mia operazione artistica è quella di costruire una “scultura virtuale”, nel senso che la mia ricerca plastica si muove sul tema unico e centrale dello spazio. Lo spazio è il mio materiale di lavoro. Le mie opere non “occupano” lo spazio, ma “generano”‘ e “dilatano” lo spazio, determinandone appunto questo carattere virtuale. In questa creazione di uno spazio virtuale assume poi un’importanza fondamentale il ruolo dell’ambiguità che io provoco in chi guarda l’opera». Per spiegare l’intimo significato di tale “virtualità”, Coletta ricorre al termine greco phánein, che definisce «l’evento che appare e rappresenta ciò che non è».
Arturo Schwarz