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L’originaria contesa tra l’arco e la vita. Sin dal titolo, l’ultima opera narrativa di Flavio Ermini fa cenno a una riflessione di Eraclito: «Nome dell’arco è vita, opera ne è la morte», ponendo così due questioni preliminari:
1. il nome dell’arco (biós) dice solo un aspetto della cosa nominata: la vita (bios), anche se tale aspetto non è meno reale dell’altro, che coincide con l'”opera” dell’arco, ovvero la “morte”;
2. non è possibile negare che una stessa cosa, l’arco (biós), sia in pari tempo vita (bios) e morte.
Con L’originaria contesa tra l’arco e la vita, Ermini chiama il lettore a muovere alcuni passi nella terra mattinale: dov’è l’originaria contraddittorietà delle cose. In quale modo? Affidandosi a un dire puramente rivelativo; un dire che vuole coincidere con il principio, per coglierne l’inesausta potenza e la promessa sempre rinnovata di avvenire che custodisce in sé.
Nel farsi della narrazione si manifestano creature di cui l’essere umano non sa nulla. Figure che pensano in una lingua che non hanno ancora pensato: la sorella del sonno, il padre divenuto cieco, il nemico mortale, i caduti, i guardiani della sfera, i discenti. Le loro vicende non avvengono mai, ma sono sempre. Hanno luogo nel possibile che costantemente si ripete: la custodia terrena del ciclo, il giardino conteso, la torre dell’antivita, l’ingannevole terraferma, lo zoo di pietra, lo spazio inerte del mare, la terra rovesciata.
Quelle figure e questi luoghi – insistentemente presenti nelle opere di Ermini – indicano che assentire al principio, conformandosi alla possibilità di una nuova scrittura, impone di testimoniare quanto avviene nell’immaginazione, al manifestarsi del vero.