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Uno dei tratti decisivi della cultura otto-novecentesca è rappresentato dal rapporto che sempre più profondamente viene a istituirsi fra la scrittura autobiografica e l’esperienza della malattia, sia fisica, sia psicologica o spirituale. A partire da Nietzsche, infatti, la malattia e la degenerazione vengono assunte non come segni di decadimento, ma al contrario come manifestazioni indirette di “potenza”, momenti in cui la vita raggiunge il grado più alto di intensità. La malattia, il disadattamento, l’impossibilità di corrispondere agli standards comportamentali imposti dalla società, diventano così la condizione dell’invenzione letteraria, artistica, filosofica e, perché no, politica. Tale esito sarebbe tuttavia impossibile se non fosse accompagnato dal racconto della vita: solo l’esperienza della scrittura – poetica, letteraria e filosofica -, intesa alla maniera di Blanchot come un’esperienza della perdita e della fuoriuscita da se stessi, fa in modo che ciò che rischiava di restare relegato nella sfera degli accidenti empirici si trasformi in significante soggettivo, prima, e condizione dell’invenzione delle forme e dei concetti, dopo.
Il libro ripercorre attraverso cinque nomi, cifre di altrettante esperienze fondamentali del pensiero e dell’arte fra Otto e Novecento, questo nodo che lega la scrittura autobiografica e l’esperienza della vita malata: parte da Leopardi tentando di smontare l’interpretazione crociana del poeta fondata sul concetto di “vita strozzata”; prosegue con l’Ecce homo di Nietzsche e con tutta la questione della sua follia; passa per l’epilessia di Dostojevskij intesa come chiave per capire la figura dell’Idiota; si sofferma sulla spiritualità anerotica e sul carattere celibitario di Walter Benjamin; e si chiude sulla follia blanchotiana di voler vedere l’invisibile, di abitare il centro accecato della luce.