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Cos’è che spinge Platone, a un certo punto della sua vita e della sua riflessione, a uscire dall’orbita socratica, ad affiancare al logos altri strumenti di indagine e di conoscenza?
È la sfiducia nella possibilità di conoscere e comunicare la verità, oltre una ristretta cerchia di iniziati?
O il ritorno alla sua iniziale vocazione artistico-poetica, precocemente sacrificata sull’altare del socratismo e dell’impegno politico?
Sono i viaggi che compie all’interno della propria anima o quelli che, morto il maestro, lo portano a Helios d’Egitto, Siracusa, Taranto, Cirene, Megara, nelle terre in cui ancora risuonava l’eco di esseri sovrumani, indovini e oracoli, sacerdoti e profetesse, divinatori e rapsodi, semidei e aruspici, muse e sibille, eroi e poeti ispirati?
È il ricongiungersi con le origini sapienziali, mai veramente abbandonate, del pensiero, con quella mentalità arcaica e misterica che, nonostante l’avvento della filosofia, continuava ancora a nutrire l’anima greca? O il bisogno, fino a una certa età trattenuto dal rigore del ragionamento, di ascoltare leggende, miti e narrazioni?
A partire dall’analisi della Lettera Settima, uno dei pochissimi testi in cui l’autore dei Dialoghi parla direttamente di sé, il saggio racconta la storia di una conversione dello sguardo e del desiderio e lo fa con un taglio essenzialmente letterario, come letterario è stato il talento di Platone.