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Chi ha avuto in sorte di vivere esperienze estreme e traumatizzanti che hanno frantumato la percezione dell’identità e della vita, o di essere l’erede di questa memoria traumatica, se “sopravvive” diviene portatore di un drammatico paradosso esistenziale. Da una parte ha la necessità di esprimersi e di trovare ascolto in qualcuno che lo accolga, lo rispecchi e lo aiuti a dare senso e coesione a ciò che rimane della sua identità individuale e storica; dall’altra ha l’intima e irriducibile convinzione che nessuno lo potrà veramente capire.
È l’inferno dei figli dei sopravvissuti della Shoah, sospesi fra una memoria ancestrale e un futuro non rappresentabile, fra il bisogno di conoscere le vicende della propria origine e quello di dimenticare per non lasciarsi inghiottire da una memoria devastante che potrebbe compromettere l’adattamento all’oggi e alla complessità del divenire. Per rimanere vivi in queste condizioni, occorre, ci dice l’autrice, un «orgoglio smisurato».
Nathalie Zajde – utilizzando i modelli teorici dell’etnopsichiatria – ha intervistato più di quaranta sopravvissuti e loro figli, con sensibilità di sentimento e penetrazione psicologica. La sua ricerca si focalizza sulla memoria traumatica ereditata dai figli di chi è riuscito a scampare allo sterminio e all’orrore nazista: persone che ereditano il peso di una drammatica diversità iscritta loro malgrado nel fondo oscuro della propria anima, vittime di una sindrome organizzata attorno alla scissione, all’incubo, al sentimento di intenso terrore e di abbandono, a una irritabilità strana e incurabile. Persone che, come osserva Zajde, «non appartengono al mondo dei semplici esseri umani, ma a un’altra sfera, sicuramente sacra».