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Leggiamo in questo libro quieto e feriale, ma intriso di una sua luce purissima, che «in fondo ci vuole poco per sentirsi dèi / pur restando umani: / uno sguardo un poco assorto / gettato sulle cose che sempre sono, / sulle persone che passano… / E non occorre che sia alta la postazione, / basta che non sia troppo basso / o soggettivo il punto di vista / ma veramente comprensivo». Raramente, in un mondo poetico dominato in egual modo dalla presunzione del sublime o dalla retorica minimalistica del poco che si fa nulla, abbiamo letto versi così parsimoniosi e ricchi di un’autentica sostanza umana. In fondo, di che altro è fatta la vita se non di cose «che sempre sono» e di «persone che passano»? E cos’altro dovremmo intendere, quando parliamo di umanità, se non uno sguardo «veramente comprensivo»? Con la poesia di Luigi Riceputi, pare di ritornare alle origini della nostra grande vicenda umanistica, a quel verso di Terenzio in cui per la prima volta qualcuno osava dichiarare che humani nihil a me alienum puto, niente di ciò che è umano mi è estraneo. Tutto, alla luce di questo semplice messaggio morale, si trasfigura: ma con la grazia e il pudore di una lingua poetica spoglia di ogni detrito retorico, affidata a immagini aeree e vaganti, che molto devono al magistero poetico dell’ultimo Saba. Ed ecco la casa dell’infanzia, che riemerge dal sonno del tempo come una «scatola magica», o la memoria che, «come un ventilabro», spazza via «la pula / dell’aia dell’infanzia / e il suo grano riluce come oro». Tutte le poesie che compongono questo umanissimo libro d’ore, paiono cosi, pagina dopo pagina, assumere la forma di una preghiera. Ma Riceputi non cade mai nell’errore di fare, della sua fede, un fortilizio orgoglioso: il suo Dio ha la sostanza materna della vita, la sua misura è la grazia (che il poeta definisce, con un verso fulminante, «il libero arbitrio di Dio»), il suo ciclo si distende fin nell’abisso («che è sempre ciclo», come leggiamo in un’altra poesia). Così, ogni verso può accogliere in sé «cose trovate per caso». Ma perché niente è frutto del caso per il poeta che si sente dantescamente trasumanar, gustando dell’erba «azzurra marina del sogno» (Glauco) o si vede rivestito, come un fanciullo o un re nudo, di «un sogno celeste» (Il poeta è un fanciullo). Egualmente, nella Vocazione di san Matteo di Caravaggio che suggella, con un’improvvisa vertigine figurativa, il libro, anche una minima taverna «da una luce divina sorpresa, / si tramuta in chiesa».
Giancarlo Pontiggia