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La leggenda del patto tra Faust e il demonio può essere letta come un mito: ovvero come una narrazione primordiale, grazie alla quale interrogarci sulla natura dell’essere umano e finanche sulla sua essenza.
È quanto fa Francesco Roat in Desiderare invano, seguendo passo per passo la vicenda narrata da Goethe, ma senza dimenticare – in frequenti, vertiginosi excursus – le tante altre opere letterarie, teatrali o musicali ispirate alla figura dello studioso che sottoscrive il più celebre dei patti stipulati tra l’essere umano e il diavolo. È lucidissima, a questo proposito, la riflessione che l’autore mette in campo intorno alle forme del desiderio e ai suoi aspetti irrisolti e paradossali.
Il desiderio di conoscere ogni cosa e di carpire tutti i misteri del mondo è un’ambizione che eccede l’umano e si traduce, come osserva Roat, “non già in un anelito sovrumano quanto disumano”! L’umanità sta da un’altra parte. Si rivela solo affrancandosi dalle illusioni.
Ritenere di poter sfuggire all’esperienza della morte e del dolore è perversione, è tradimento, è corteggiare un precipizio. Solo la coscienza della profonda unità del cosmo – alla quale siamo chiamati nascendo – può placare l’angoscia della caducità e può consentirci di abbracciare una visione della vita che sposti l’accento sul morire come legge dell’esistenza; può indurci a prendere consapevolezza dell’impossibilità di ogni assoluto, di ogni eterno piacere. Può consentirci di abbracciare i chiaroscuri di una persistente umbratilità.
Dalla postfazione di Flavio Ermini