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Giunto alla sua ottava raccolta, Angelo Ferrante si rivela come uno dei pochi poeti contemporanei capaci di coniugare un lirismo alto, di ascendenza leopardiana (e non solo il Leopardi idillico, ma anche quello, più severo, dei Canti di Aspasia), con un’intensa passione civile – spesso nutrita di toni aspri e polemici, ma anche di una tormentosa e umanissima pietas -, di ascendenza questa volta pasoliniana (e non a caso sotto il segno, anche stilistico, di Pasolini è posta tutta la seconda parte della raccolta).
Poeta lirico e morale, alieno da ogni forma di minimalismo e di intimismo, Ferrante – come già dicono le programmatiche quartine dell’esordio – si pone dunque dinanzi all’opera del tempo, cosmico e umano, nella duplice attitudine di chi vuole contemplarne, foscolianamente, «l’orme / che vanno al nulla eterno», ma anche di chi non vuole disperdere le memorie storiche: il linguaggio dell’idillio potrà allora fondersi con le crudezze del lessico quotidiano; il mondo della natura con quello della città; la tenerezza con la rabies; la nostalgia per la giovinezza troppo lontana con la fermezza di uno sguardo lucidamente puntato sul nostro presente. Perché ciò che infine vince, tra i frantumi di un mondo rappresentato senza più identità culturale e sociale, sovrastato dall’ombra proterva del male, è la vita che sempre «ci trascina» (LVIII), la sua sacrale bellezza, il suo imperioso, sovrano moto di creazione e dissoluzione. E questo, sembra dirci Ferrante, è il compito della poesia: restituire senso e dignità all’esistenza umana, custodire i valori della memoria (individuale e collettiva), sconfiggere — nella disciplina di una forma intensamente compiuta – il sentimento della morte, come leggiamo in una delle più struggenti liriche della raccolta (XLV): «Morire. Quando. Quante volte ancora / ritorna questo ingorgo, che il pensiero / sospinge verso gli angoli più oscuri / della mente, dove ribolle il vero // senso del vivere, questo amore leggero / per il ciclo, le stelle, il vento, il mare, / e l’erba e tutti i petali dei fiori / che gli occhi non vedranno più spuntare».
Giancarlo Pontiggia