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Cinque ragionamenti di Meneghello, scritti a voce, sui rapporti fra esperienza e scrittura, sull’amicizia, sull’ambizione personale, sul regno della bicicletta e delle donne, sui risvolti più o meno seri della parola “virile” o dei premi letterari, sul periodo strano del dopoguerra, dove i “pezzi politici” possono discorrere (nel senso manzoniano del “fare all’amore”) con i pezzi più “frivoli” (frivoli?) delle attrazioni per una moto, per una donna, per “lo strano paese dell’eros”. L’autore prova empiricamente a far vedere i meccanismi, le rotelle e gli snodi della sua materia.
In questi saggi divertenti si disserta sul rapporto fra autentico ed inautentico, su come si forma un libro, sui suoi vari strati, per cui alle volte creare significa afferrare delle manciate di esperienza lontana, con uno slancio di grazia, per poi ossificarle nelle versioni scritte, negli “innumerevoli, ostinati, stucchevoli schemi o elenchi di possibili parti o capitoli”, e altre volte, invece, creare vuoi dire pescare nel caos della calotta cranica, dove le esperienze vanno in soffitta, per dare a quei frammenti marasmatici una forma organica. Scrivere è per Meneghello una attività pratica, come aprire con un tocco dell’unghia (lo stile) i gusci “nevralgici” dei ricordi, delle parole-chiave, per arrivare ai “nuclei di realtà”: un lavoro di meccanica, con le giunture, le saldature, e di straforo, più nascosti, gli impasti e le fusioni, le vergognose ma esaltanti poltiglie. E dall’originalità uncanny degli accostamenti, dei rabaltóni improvvisi dal serio al comico che sprizza sul lettore vibrante, stupito, il fascino intenso, sconvolgente di questa prosa.
Meneghello mostra come si possa parlare con la stessa serietà, cioè con autorità e competenza, del Partito d’Azione e di uno sputo. La scrittura saggistica investe questioni letterarie di fondo, come quella del rapporto fra privato e pubblico, fra autobiografismo di partenza e autobiografismo d’arrivo. Alla base di questi cinque ragionamenti, a modo suo intuitivi ironici e illuminanti, irrobustiti da arterie polemiche social-civili e da scrupoli filologici, lo scrittore fa vedere per immagini le profonde, impensabili verità del linguaggio. Torna e ritorna sui suoi temi, sui suoi attrezzi di lavoro, sugli zii e Thomas Mann, sulle formiche e Yeats, sulle immagini ambivalenti di ciò che racchiude, preserva: uova, gusci, sferiche ballottine… e prova a spiegare, a sé e a noi, perché è ciò che è, vale a dire uno scrittore che dissacra, che contesta prestigi piuttosto che edificarli e da una lezione epistemologica per dimostrare come prima di imparare a costruire e creare si debba imparare a smontare con garbo, curiosità e profondo rispetto. Proprio là dove si indicano alcuni modelli di autorità intellettuale torna così ad esprimersi il caparbio e irriverente sguardo dal basso, del bambino narcisista che difende come può, con denti scarpino e prosa, il suo diritto sacrosanto alle “ponpe”, a una dose abbondante di felicità.
Ernestina Pellegrini