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Quello che muove i pensieri di Roberto Gambini è il contatto con una sofferenza dell’anima che chiede la parola, a cui lui presta la voce. Questo testimoniano i saggi che ha raccolti in questo libro. Non c’è indugio nella retorica delle citazioni colte, dei riferimenti testuali, perché il testo cui lui si riferisce e che commenta è soltanto quello che si svolge sotto i suoi occhi attenti, che si da a lui nella propria sofferenza e nella propria apertura. È da questo contatto diretto che emerge la parola; che soltanto dopo, a volte molto tempo dopo, diviene scrittura. Così non è possibile dire, di questa sua scrittura, che sia essa stessa generativa di pensieri, come in altri casi avviene; al contrario, cerca di tener dietro alla parola detta, scaturita direttamente dall’anima, e a somiglianza della parola detta, e in forza di quella parola, cerca di coinvolgere altri nella cura della sofferenza che è alla sua origine. Se Gambini parla degli indios, è perché ha vissuto con loro, ha parlato con loro, ne ha ascoltato i sogni, degli adulti e dei bambini, non perché ne ha letto: non si è commosso o indignato sulle pagine di un libro, ma nel contatto diretto, da anima ad anima; così se parla degli emigranti italiani, fra i quali furono i suoi nonni, dei loro “cuori spezzati” nel porto di Genova; così se parla della città dove abita, San Paolo del Brasile, una megalopoli che è un corpo immenso, di cui gli alberi, i giornali, le opere degli artisti sono altrettanti segni che ne annunciano malesseri e aspettative profonde, talvolta ancora velate; così se parla dei sogni dei bambini, trepidanti segni dell’anima che ha cominciato a scendere nel mondo. Gambini invita a entrare in contatto con l’anima, non l’anima soggettivizzata, ma l’anima del mondo, di cui quella “personale” è soltanto un aspetto; invita a guardare spogliandosi delle immagini convenzionali, anche quelle prodotte dalla tradizione psicoanalitica: per vedere, finalmente, per ascoltare, finalmente, per aver cura della realtà in cui viviamo e di cui viviamo, per lasciare che i pensieri si formino liberamente e ci trasformino, per consentire che continuino a farci immaginare e comprendere anche quando sono scritti, cosicché la scrittura non sia la loro tomba ma la loro culla.