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In questo fascicolo di «Atque» torniamo a riflettere su quella pratica di cura che definiamo talking cure, a partire dalla brillante definizione di Anna O., alla luce di alcuni argomenti ampiamente dibattuti nei fascicoli pubblicati in questi ultimi anni. Per certi versi, la talking cure dei nostri giorni tende sempre più a riconoscersi in una dimensione performativa, valorizzando le azioni, le trasformazioni, i passaggi che si compiono nella pratica linguistica, avendo ormai quasi del tutto abbandonato sfondi più concretistici o rimandi ad altri livelli di realtà che diano senso all’attuale. E tutto ciò conduce di necessità a ricercare una migliore capacità descrittiva dell’esperienza e della sua attualità, ma anche, approfondendo in senso critico il concetto stesso di esperienza, a giungere al grembo delle parole. Per questo intendiamo parlare di estetica della talking cure accogliendo la proposta di Emilio Garroni e di Fabrizio Desideri di guardare all’Estetica non più come una disciplina speciale, ma come una riflessione critica sulle condizioni di senso dell’esperienza, volta a esplorarne la grande complessità. Lo “sguardo-attraverso”, mutuato da Wittgenstein nel tentativo di descrivere quel modo paradossale di vivere dentro l’esperienza mettendola contemporaneamente in questione dall’interno, esprime molto bene il processo di pensiero che accompagna costantemente la pratica della talking cure, almeno quando essa si ponga criticamente in discussione relativamente ai modi del suo farsi. Come si vedrà nella lettura di questo fascicolo, assumere questo vertice di riflessione fa sì che alcune questioni che hanno attraversato le concezioni della talking cure si presentino in modo molto diverso, tanto da delineare un nuovo contesto riflessivo della sua teoria della clinica. In primo luogo perde di consistenza (…) la prospettiva internalista che (…) ha trascinato con sé presunte autonomie del mentale, e relativi accessi privilegiati, acritici riduzionismi e causalismi derivativi. Analogamente, l’ammissione di un “primato dell’esperienza” si rivela uno strumento fecondo per ripensare criticamente il “primato del linguaggio” che ha dominato decenni di riflessioni sulla talking cure (…) nel senso di una valorizzazione della complessità e della difformità delle dimensioni interagenti nell’esperienza. E proprio in questo senso, assume un valore strategico la riflessione sulla proposta che ci arriva da due autori come Emilio Garroni e Fabrizio Desideri, dove si pensa una correlazione molto stretta tra percezione e linguaggio, come dimensioni che (…) si sviluppano in un gioco interattivo (…). Di fatto, nella pratica della talking cure, sono sempre in gioco le componenti percettive ed emotive che attengono non già ai processi intenzionali (consci) bensì ai processi attenzionali (inconsci): e già questo può essere un rovesciamento dell’euristica della cura, non foss’altro che nel privilegio assegnato a una modalità di comprensione inscindibile dalle implicazioni percettive ed emozionali specifiche del presente attuale. (…) Altro punto di rilievo è la considerazione di come, in questo gioco interattivo e diversamente espressivo di percezione e linguaggio, l’oggetto resti comunque un termine che, opponendo resistenza, non si lascia completamente prendere, svelare, esprimere o rappresentare, per cui lascia sempre qualcosa da dire, o forse anche qualcosa che non si può dire. (…) Per questa via, si cominciano a esplorare quegli ambiti dell’operare clinico in cui ci si confronta più direttamente con i limiti del rappresentabile, e con quelle feconde differenze che si aprono tra quanto può essere detto nel linguaggio e quanto può essere espresso nella sensibilità che lo accompagna. (…) Infine la riflessione viene portata su una concezione dialettica soggetto-oggetto che emerge operativamente dalla prassi estetica, così come dalla riflessità che su di essa si insedia (…).
Maria Ilena Marozza e Paolo Francesco Pieri