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Poeta parco ed essenziale, che scrive solo quando ne sente l’urgenza e la necessità, Riccardo Emmolo, l’autore di Ombra e destino e altre poesie (2002), è venuto componendo in questi anni un libro nuovo, originalissimo, intensamente ispirato, al confine tra lirica e narrazione, a volte scanzonato, irriverente, perfino comico e clownesco, a volte amoroso e appassionato, ma anche crudo, tagliente, inquietante, soprattutto quando affronta temi rari in poesia come la malattia, l’afasia, la crudeltà.
Il libro si dà come un intreccio di voci che invocano, interrogano, dialogano: a volte scontrandosi con il silenzio, che è sempre il silenzio dell’anima, quando è resa muta dal dolore, quando si affaccia sul mondo in cerca di un senso, di una risposta al male – almeno apparente – delle cose. La spoglia necessità dei titoli; le interrogazioni che tagliano, con la loro carica metafisica, la trama ordinata dei pensieri, svelandone la fragilità; le sospese meditazioni sul sentimento del tempo; le fiondanti immagini dell’adolescenza sciclitana, con le sue storie lucenti e crudeli, le sue figure remote, eppure indelebili; gli impietosi rendiconti della vita, che l’animo severo accoglie come sentenze definitive; le invocazioni ai cieli; il gioco ambiguo dei pronomi, delle identità che si ritrovano e si perdono; e poi di nuovo voci, che tentano un muto dialogo; voci familiari; misteriosi messaggi d’amore; la lingua gergale che s’intrude, impastandosi, nella lingua più illustre della nostra tradizione, inasprendola: di quante cose non è fatto questo libro che non cela l’asprezza dell’esistenza, né cerca evasione, conforti, ma neanche disdegna di cantare «i semi, i segni» della speranza e della vita…
Davvero, a volte ci chiediamo, «niente ritorna mai»? Davvero «non resterà niente»? Davvero «impenetrabile è la vita»? Davvero, più «le voci si moltiplicano / gli alibi si consumano»? Talvolta il lettore ha la sensazione che niente potrà mai abbattere il muro di male e di inerzia che all’improvviso si erge, scardinando ogni nostra speranza; ma basterebbe affidarsi al movimento complessivo del libro, per scoprire come esso si volga inevitabilmente verso le nove poesie d’amore che si danno, verso la conclusione del libro, con le loro rime chiare, i loro suoni di fiamma e di aria, la loro «gioia gialla /come la pietra modicana» come qualcosa di più di un’illusione: è il potere scandaloso della felicità; il respiro delle cose che tramuta il tumulto serrato e doloroso, incompiuto e angoscioso delle voci della vita nella «voce fanciulla» della Dedica finale, «levata tra me e nulla // più».
Giancarlo Pontiggia