pagine 76 | prezzo 12,00€ | cm 14,2x21

postfazione di Paolo Lagazzi, quarta di copertina di Tomaso Kemeny,

disegno di copertina di Daniela Tomerini

 

Stelle a Merzò di Adele Desideri si origina dalla trasposizione per frammenti lirico-elegiaci di una storia d’amore appresa “dalla viva voce della protagonista”. Come in un diario-resoconto di una passione estiva, il testo trova il suo incipit il 28 luglio 2009 a Merzò, per concludersi, circolarmente, a Merzò (dopo passi contestualizzati ad Airola, Milano, Ponte di Santa Margherita ecc.) il 31 ottobre 2009.

Il testo può venire recepito come “il cerchio perfetto in cui l’amore fallisce”, una mitica passione, paradossalmente essendo Merzò Comune di Sesta Godano, provincia di La Spezia, Liguria, “Godano” derivando dal longobardo “Wotàn”, niente di meno che il Dio Odino.

Ma nonostante il nome del Comune, che allude agli augurabili godimenti degli innamorati, questa è una storia fisica e metafisica di patimenti tesi faticosamente alla catarsi, trattandosi di una passione che figlia la percezione dell’impossessamento da parte del nulla, o meglio se ne lascia pervadere, come enunciano i versi “Non si può dimenticare / quel rotondo sentimento del nulla / che cresce nel ventre / – ed è un ospite, un intruso”. Le stesse parole che costituiscono il testo risultano come “riti inverecondi, / ancelle dei tuoi sbagli …”.

I panorami, le atmosfere, gli stati d’animo evocati da Adele Desideri vengono sfregiati da squarci di disperazione che giungono a rendere appetibile la stessa morte (“… e non posso dire / quanto sia dolce con te / questo morire…”), tanto da volere bloccare questi momenti di assoluto tormento: “Fermiamo l’orologio, / fermiamola, questa vita / che non ci vuole …”. Cosi la poetessa elabora “il sigillo … alla perduta estate” e l’intensità dell’esperienza evocata tutto crudelmente cancella: “A Merzò resteranno solo ombre, / desolate tracce di una fugata quiete”.

La fine d’un amore qui si raffigura come un’ombra mortale che trascina negli abissi dell’annullamento anche le cose: “La casa che esplodeva d’amore / ora muore…”. La luce stessa appare come aggressiva se non assassina: “In questa luce che travolge / ma non illumina…”.

Nonostante l’oscurità che pervade il mondo femminile alla morte d’un amore, la nostalgia stenta a morire: “Ti aspetterò qui, sul colle di Merzò, / quando il sole all’imbrunire / colora i prati, l’erba selvatica, / le panchine divelte”, e si può arguire che le “panchine divelte” siano la proiezione nel reale di un crollare delle fondamenta dell’io.

La malattia d’amore pare irrimediabile, anche se i versi dell’autrice tendono a portare alla catarsi il lettore sensibile, i mal-aimé alla Apollinaire.

 

 

Tomaso Kemeny


 
pagine 207 | prezzo 16,00€ | cm 14,5x21

Agli inizi del secolo scorso Virginia Woolf chiedeva con Una stanza tutta per sé uno spazio autonomo e una rendita per  le donne come primi requisiti per diventare  indipendenti e soddisfatte. Qualche anno dopo Marion Milner, una psicoterapeuta inglese, esigeva di più e voleva Una vita tutta per sé.

Inizia così la fortunata vicenda di un libro, pubblicato per la prima volta nel 1934 e premiato da un immediato successo, tanto che le ristampe si susseguono fino ai nostri giorni.

Scoprendosi a disagio, frustrata e scontenta a dispetto di una vita apparentemente risolta, Marion Milner si mette risolutamente alla ricerca di un criterio personale dei valori che la renda capace di seguire i propri desideri e,  per quanto possibile, realizzarli.

L’originalità di questo percorso sta nel fatto che Milner, pur essendone al corrente, non si avvale di tecniche psicoanalitiche riconosciute, né cerca nei testi già pubblicati delle formule collaudate ma si mette ad ascoltare attentamente il proprio sentire, lo trascrive in un diario, lo esamina senza ipocrisie e ne trae delle conclusioni decisive per il cambiamento desiderato.

Avventurandosi coraggiosamente in una terra inesplorata, l’autrice non esita ad affrontare momenti di delusione, paure rimosse, e esitazioni irrazionali, passaggi inevitabili verso una migliore comprensione di se stessi e verso il raggiungimento di insperate vittorie.

Alla fine della sua  originale ricerca Marion Milner conclude: “Anche se quello che ho trovato io è probabilmente caratteristico del mio temperamento e delle circostanze della mia vita, sono convinta che il metodo della mia ricerca possa essere utile ad altri, anche a coloro le cui scoperte su se stessi fossero l’opposto delle mie.”

È la ragione per cui questo libro è diventato un classico e non cessa di stupire.