pagine 264 | prezzo 20,00€ | cm 14,5x21

Ripercorrere il senso, il ruolo e il valore che la poesia può ancora avere nel mondo è un compito che va ben oltre le questioni linguistiche o di poetica, il vaglio degli strumenti retorici o le annose discussioni sul canone: è un compito che chiede a tutti noi – poeti, critici o puri lettori – il coraggio di considerare con chiarezza la situazione dell’uomo in questo momento storico. Se fosse possibile individuare una chiave per descrivere i nostri anni nel loro insieme, cosa potremmo dire se non che questa è l’età della stanchezza? Innumerevoli opere, non solo di poesia, grondano oggi stanchezza: sono voci opache, espressioni d’apatia, testimonianze d’una vitalità ottusa e perplessa benché non di rado ammantata di colori falsamente sgargianti. Presi in un intreccio inestricabile fra la stanchezza delle parole e le parole della stanchezza, gli uomini appaiono sempre più rassegnati, incapaci di credere davvero che qualche grande novità possa trasformare in meglio la storia. Ciò nonostante nella poesia resiste una forza refrattaria alla tentazione di adagiarsi nel sentimento dello sfacelo. È forse un caso se già Hölderlin aveva osservato, in limine alla grande crisi del moderno, “ciò che resta lo fondano i poeti”?

Leggendo con finezza e passione alcuni fra i testi più significativi apparsi sulla scena poetica italiana negli ultimi trent’anni, Paolo Lagazzi ci aiuta a riconoscere ancora una volta la poesia come forza necessaria al nostro umano cammino, come esorcismo contro l’angoscia e inno di devozione alla vita, come testimonianza e rifugio, preghiera e lotta, fiamma e carezza, o come quel piccolo e immenso miracolo – una fragola nata sull’orlo d’un abisso – di cui narra una famosa parabola zen.


L’ultimo libro di Pasquale del Cimmuto si presenta come uno struggente, lucido rendiconto esistenziale. La lingua poetica è aspra, tagliente, spesso raggelata, fondata sull’esigenza di cogliere la vita nella sua verità nuda, senza infingimenti. Davanti agli occhi del poeta scorrono i segni del mondo: poiane, pleniluni, sentieri montani, lepri in fuga, cui si accompagnano meditazioni sul senso delle cose, implorazioni al dio delle solitudini, memorie familiari, riflessioni sul «niente di vivere», ma anche improvvisi frammenti nutriti di una gioia intensa, insperata. L’uomo che ha impastato le mani nella «creta del mondo», sente che tutto, nel gran vorticare delle cose, è solo apparenza e trasmutazione. Kikuo Takano, il poeta giapponese che sostò diversi giorni tra i boschi e le pietre della sua terra, lasciando l’impronta di versi fragili e sublimi in cui Oriente e Occidente si toccano, ritorna nella forma aerea di una farfalla, a dire che «ogni uomo è una goccia del senso/ che ha la luce nel nulla». A volte, la lingua sembra venir meno, arrendersi al potere muto delle cose; la verità si fa «veritudine», segnata dal sentimento del limite, dalla legge universale della sofferenza; scuri assilli scheggiano la lastra dei versi. «Sembra tutto terribile/ eppure la notte è serena», avevamo letto nel prologo del libro: ed è proprio questa cosmica forza serenatrice a divenire poco a poco, pur nella densità dolorosa dei pensieri, il motivo dominante della raccolta. Così che quando il libro giunge alla sua chiusa, il poeta può semplicemente affidarsi al mitico traghettatore con tre versi di umile verità: «Ho solo un navolo nella tasca sdrucita/ Tutto questo è quanto ho./ Tutto questo io rendo».

 

Giancarlo Pontiggia