pagine 272 | prezzo 20,00€ | cm 14,5x21

Settembre 2016

 

Questo fascicolo di «atque» riflette sull’intrinseca, originaria e fondamentalmente positiva, opacità del reale. Ovvero sul carattere di opacità e insieme di concretezza delle cose, delle persone, degli eventi a cui, d’altronde, varie pratiche di studio e riflessione sembrano ormai rinviare: dalla percezione all’attenzione, dal darsi del dentro e del fuori, alla relazione tra mente e corpo e tra soggetto e oggetto. Opacità degli oggetti fisici e della materia delle cose: materialità, attrito, resistenza, persistenza, “quel che resta”, “il soggetto sottostante” non fanno altro che comporre un corollario della opacità delle cose – così come esse appaiono nel nostro campo visivo. D’altronde, nella visibilità – nel gesto della visione che accompagna il nostro situarci nel mondo – le cose, le persone, le situazioni si dispiegano nella nostra vita proprio per il loro carattere opaco e insieme concreto. In forma di domanda: a) riusciamo, e come, ad abitare le cose che ci sono (che si danno ai nostri occhi) ma che, come tali, si mostrano nei loro caratteri di opacità positiva e concretezza piena? b) come possono procedere i nostri discorsi senza mettere in scena una eterna vittoria della mediazione linguistica e, più in generale, simbolica sulla opacità delle cose, per cui – ogni volta rinviandovi – riescano a non dire di più di quel che nel loro dire tacciono? c) si può infine affermare che proprio resistendo nella loro opacità, le cose sono ciò che danno luogo al patico, per cui – esplodendo a livello esperienziale – eccedono la nostra intelligenza sia rivelandone criticamente i suoi tratti essenziali, sia tendendo a oltrepassarla, e quindi ad aprirla a una haecceitas? Se il tema del fascicolo è “L’opacità” e in particolare “L’opacità dell’oggettuale”, più ordinatamente i vari svolgimenti che raccoglie, possono essere sommariamente etichettati così: la resistenza delle cose; non solo soggetti; la dimensione opaca (e resistente) dell’essere un corpo (vivente); la logica dell’Es (intra-, inter-, ed esopsichico); il momento opaco della paticità.

Fabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri


 
pagine 168 | prezzo 15,00€ | cm 14,5x21

L’infanzia e l’adolescenza, risorgenti in noi durante l’intera vita come un sogno, sono la radice stessa dell’esistere. Spesso non si sa dove e come si siano nascoste, se mai ci siano state. Spesso ci richiamano, in un alternarsi di luce e buio significativi. È il tempo in cui intuiamo e pratichiamo l’essenza stessa di ogni cosa e ci nutriamo della gioia e dei più profondi dolori. È anche il tempo in cui ci si guarda e si riflette: ogni istante diventa uno specchio – nei rapporti con la natura, con le persone, col nostro corpo. Non c’è nessuno a cui riferire le nostre emozioni, le esperienze. Sentiamo che non saremo capiti. Abbiamo una precoce sensazione dell’inadeguatezza degli adulti, soprattutto nelle nostre esperienze più profonde. Scrive infatti Adele: «Come avrei potuto spiegare a mamma (…) che il mio corpo era diventato “i miei corpi”: uno sopra, come una nuvola, e uno sotto, immobilizzato?». È quello anche il tempo in cui si vedono i fantasmi, si sentono le voci, si prevede il domani.

Adele tratta il tutto con il distacco, e quindi l’ironia, di chi ha imparato a comportarsi in modo da non essere travolta da quelle prime umane vicende. Da questa sua ironia e dai rapporti infantili viene anche l’uso del toscano popolare che dà forma e colore a tanti passi del suo ricordare. Non a caso lei scrive che «La lingua toscana, forse più di altri idiomi materni, ti entra nel sangue attraverso il latte e ti segna a fondo». E, in un altro passo, conferma: «Avere radici toscane ha significato, per me, sapere e potere accorciare le distanze» con gli altri. Penso che qualcosa di simile possa accadere al lettore di questo libro.

Franco Loi

Milano, 10 febbraio 2013