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Il poeta che qui leggete, e che cammina per le vie del mondo sotto il nome di Silvio Aman, l’autore di Sinfonia Alpina e di Nel cuore del Drago, sa bene – come sa bene anche il lettore avveduto – che non si scrive per parlare di sé, semmai per dar vita a parole calde come i fili di paglia di un nido, severe come i legni di una casa custodita dal tempo. Come un acquarellista sublime, intento a salvare nei suoi piccoli e cerimoniosi quadri le minime cose della vita, il loro simbolismo più segreto, e sia pure intinto di un’angoscia da cui neanche la più luminosa e più pura bellezza ci può preservare, anche Aman tenterà dunque – in virtù di «un lavoro lungo e quieto» – di dipingere i suoi «mobili in ciliegio,/ I vasi colmi d’acqua con le dalie,/ I piatti azzurri appesi/ E dentro l’aria argentea, l’ombra» (Aliénor). Con la sua lingua squisita e un po’ démodée, che non disdegna di attingere a forestierismi e locuzioni trapassate, con il suo stile così lieve e aereo (come il titolo del libro ci fa d’altronde presagire), con la sua sensibilità così squisita e accesa e i suoi raffinati modelli poetici, concentrati tra fine Ottocento e primo Novecento, tra (mettiamo) Corazzini e Rilke, il Verlaine malinconico delle Fètes gakntes e certe vertiginose, scure accensioni espressionistiche della pittura viennese di inizio secolo, il poeta che tanto ha amato Walser, e che ha dato vita a una rivista – «Hesperus» – dal nome eloquente e ambiguo, davvero sembra muoversi ad ogni pagina sugli orli notturni del verso, tra pensieri inconfessabili, figure mitologiche degne di un lettore di Freud e flore dai nomi inquietanti e minacciosi. Ma il lettore che lo segua con attenzione, non mancherà di cogliere – dietro i fili ossessivi che tramano il libro – un disegno di limpida purezza e di amorose dedizioni: quasi che quei fili fossero lì proprio per custodire, intatto, il segno – il più semplice ed elementare – del cuore.
G.P.