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«Guarda il mondo dissestato / la terra arida il mare privo di pesci / eppure nel cielo brillano le stelle e le antiche costellazioni»: sta qui, forse, in questi versi così dolorosi, eppure trepidi di speranza, immersi nella materia scura della storia, eppure così ostinati nel loro sguardo celeste, il centro di ispirazione della nuova raccolta di Gabriella Sica. Basterebbe, d’altronde, il titolo virgiliano per dire di quante lacrime e di quanta pietà risultino intessute queste pagine, che nascono dalla tragedia della storia e della vita, ma per contemplarla entro i cicli di un destino più antico e profondo: qualcosa che ci tocca, dunque, al di là dei tempi che viviamo e delle piccole vicende che ci riguardano. Di qui quella doppia attitudine dello sguardo, che si interroga sul senso del male, ma che insieme aspira a superarlo, o volgendosi ai segni innocenti della vita (le «immacolate» oche di Villa Borghese), o assumendosene lietamente il peso, il lutto. E due saranno anche le costanti di questo libro di lacrime non vane: leggere il presente attraverso figure e simboli, dal contadino-poeta delle prime pagine alle donne del mito tragico come Andromaca, Didone, Antigone; cercare nella poesia non solo l’inquietudine della domanda, ma anche la verità della risposta. Non sarà dunque un caso se in un libro così ricco di pensieri e di riflessioni, così vario sul piano metrico e tematico, non si dia solo il Virgilio dolente e pensoso dell’Eneide, quello che si interroga sulla morte incomprensibile di Palinuro o sul crudele abbandono di Didone, ma anche il Virgilio più giovane e fiducioso della I e della IV ecloga, cui si ispira la seconda delle tre lunghe e meditate poesie di chiusura. Libro di molti pensieri e di molte forme, che conferma la pronuncia originale e la qualità autentica di una scrittrice che da sempre ha cercato, e voluto, una poesia di verità umili e condivise, sabianamente «onesta», capace di farsi «comunità e coro».
Giancarlo Pontiggia