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Se il desiderio nasce dall’assenza, tutto questo bellissimo, desiderante, spasimante canzoniere di Sauro Damiani nasce dalla lontananza d’amore. Come i provenzali, e molto più e molto meglio di Lacan, Damiani sa perfettamente che non si da amore senza “mancanza”: ciò che ci spinge di continuo verso l’oggetto del nostro desiderio è un fuoco che sarà, come dev’essere, destinato ad ardere in eterno: perché è solo in questo fuoco che si brucia ogni “tristezza”, ed è solo qui che il mondo e la vita che ci incapsulano possono ritrovare totalmente le loro tinte e i loro profumi più adescanti – la loro scena canora e variopinta. L’assenza, come aveva capito Bertolucci, è in questo modo la più acuta delle presenze. Quanto ci appare destinato a sottrarsi altro non è che la nostra sostanza indistruttibile. Il fuoco che ci ustiona finisce per rivelare ai nostri occhi i colori del ciclo – di un ciclo in cui abitiamo da sempre.
Eppure, non bisogna aspettarsi che Damiani si lasci sfigurare, perdendosi, dalle fiamme del suo desiderio. Egli, con un gesto sovrano, le incarcera nelle griglie fittissime -metriche, strofiche, fonetiche – che le armi della poesia gli mettono a disposizione. Con precisione assoluta, pianta sulla carta ottave, sonetti, quartine: perché ha compreso che, se “la nostra libertà è nelle catene”, soltanto la forma può portare al diapason dell’intensità e della libertà espressiva la sua passione divorante per ciò che non ha forma né volto: per ciò che sarà sempre lontano, per ciò che sarà sempre perduto – e proprio per questo, come si è detto, paradossalmente ci apre alla benedizione e all’incanto del mondo.
Dalla tensione fra questi due poli, nasce il miracolo di questa poesia.
Stefano Lecchini