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«A folìa chi ndavìa singatu / cu sputazza ‘i cinnari nto margiu / ‘a trovai accoppata cu χacchi / d’armacera e umbri d’alivari. // Mpisu nta nu gghjiommaru ‘i cimentu / i jidita a curteju senza punta / cercu nu fìlu ‘i cielu pe cusiri / i jorna chi mi mancanu du cuntu. // U ventu si ndi mpercica nt’é timpi / na vuci russìja nto cannitu / iestimu tutti i craculi du tempu / prima u diventu aχχeri ‘i calijari»; così, con tre quartine di stridente energia linguistica (che la traduzione italiana, a cura dello stesso autore, riesce non poche volte a conservare), ha inizio questo asciutto, aspro libro d’esordio di Alfredo Panetta, un libro che certo non sarebbe dispiaciuto a Cesare Pavese.
Sullo scenario di un mondo selvatico, crudo, animalesco, affondato in una dimensione arcaica e mitica, emergono figure plasmate in una materia scura, ctonia: ombre che la voce del poeta evoca da un tempo remoto, vorticoso, tagliente come una lama, perennemente sanguinante; e che, come quelle omeriche evocate da Odisseo sulla soglia di Ade, implorano soltanto «un po’ di vita», prima di riaffondare nel fango e nelle radici di una terra che sembra abbandonata a se stessa, come se fosse priva di ciclo.
Inchiodato ai suoi inamovibili cippi, alle «pietre di confine» della memoria, questo mondo è ritrovato nel verso, ma di un verso che sembra fatto anch’esso di calcinacci, di terra, di grumi, di grondanti umori. Sebbene viva ormai da molti anni in una grande città del nord (intrisa delle sue immancabili solitudini, del suo vuoto doloroso), il poeta che evoca le sue ombre continua in realtà ad appartenere alle colline, alle fiumare, alle sterpaglie, alle capre di una terra sentita come una presenza originaria, inesorabile. Composto, com’era d’obbligo data la materia, in dialetto (senza cedimenti al colore vernacolare, reinventato a colpi di metafore e di tagli sentenziosi, affidato a un vocabolario intenzionalmente duro e scheggiato: parole-voragini, che sprofondano nella visione; parole-sasso, che feriscono), Petri ‘i limiti è un libro solitario, spoglio, puntuto, chiuso ostinatamente nel suo orgoglioso silenzio, destinato a lettori che non chiedono complicità: solo la potenza, nuda, di una parola che è figlia della Memoria, voce di ciò che è perduto.
Giancarlo Pontiggia