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Dottor sottile in scienza degli addii, anche in questa sua ultima raccolta, che non a caso proprio a Gli addii si intesta, Gian Ruggero Manzoni srotola una prosodia trepida e martellante, arrembante e delicata: spartita in egual misura fra sentenziosità perentoria e abbandono, acuminata attenzione al dettaglio e vertiginosa qualità di visione, ma sempre amorosamente consacrata a quanto – accanto a noi, se non dentro di noi – è destinato ad andare perduto. Riprendendo il Louis Malie di Au revoir les enfants (pellicola del 1987 da noi giunta come Arrivederci ragazzi), e facendolo reagire senza sforzo con la storia della piccola Ester, una bambina ebrea che il padre del poeta cercò invano di mettere in salvo durante le persecuzioni della Seconda guerra mondiale, da un lato Manzoni sembra dirci che non può esserci scampo: tutto verrà calpestato, saccheggiato, sfigurato e cancellato per sempre. Ma, al contempo, Manzoni non ignora che, nel tenero gesto con cui si dice addio a chi abbiamo amato e non potremo vedere mai più, è racchiuso anche ogni possibile riscatto: «la luce della commozione» ci eleva sopra noi stessi e ci avvia a «grandi imprese»: il «rispetto per la scrittura» coincide con «il sacro rispetto per i morti» – mentre la mano che saluta per l’ultima volta rivela di essere, precisamente, la stessa che ha già cominciato a raccogliere con ogni cura, su un foglio, i tratti e le tracce di coloro che ci stanno lasciando.
Stefano Lecchini