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Ishtar dagli occhi colmi, poema dei morti è un testo che non si attarda a rappresentare l’enigma della femminilità, ma ne evoca le mutazioni e il divenire. Il poema è teso tra un passato immemorabile, riflesso nello sguardo accecante della Dea, e un futuro calamitato dall’enorme forza d’attrazione del simbolo ritualizzato. Il piano dell’espressione e del contenuto, di questi versi duri, serrano esperienza e mito, vita e scrittura l’una sull’altra, come due valve di una conchiglia prodigiosa, impedendo ogni penetrazione attualizzante dall’esterno. Il canto, così, sgorga da profondità sibilline e si cala nel tempo e nella mortalità, senza mai perdere lo slancio verso un’anteriorità e una successione epifaniche, di modo che l’essere da prova di sé, concretizzandosi in un’azione poetica “forte”, fuori dalle angustie di un’attualità incolore. Il lettore troverà exergo, citazioni, echi intertestuali che non si esauriscono in rapporti di citazione, ma arredano i campi di battaglia di una scrittura pronta a favorire il superamento dei confini del senso tragico del possibile. Eppure si evoca una femminilità trionfante perduta e utopicamente attesa ma ancora irraggiunta perché se chi sogna può trovarsi in casa dell’oggetto del desiderio, qui la frattura tra l’anima femminile e le condizioni esistenziali e socioculturali date non permette l’indistricabile congiunzione tra civiltà, natura e calore del cuore. Forse anche per questo la Dea che si definisce “…la signora che riempie i confini del ciclo” porta “in seno un pugnale affilato”.
Tomaso Kemeny