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Leonardo Sciascia ancora in tempi abbastanza recenti, nel 1975, poteva denunciare la scarsa attenzione dedicata all’opera di Alberto Martini, “l’artista più misterioso, più decadente e più surreale dell’Italia post-unitaria”. Credo che anche oggi si potrebbe rivolgere lo stesso rimprovero alla critica d’arte, che non ha mai veramente saputo assimilare la sua personalità nel contesto della tradizione italiana. Operazione questa d’altronde non facile dal momento che Alberto Martini, che pur s’avvale dei grandi modelli classici, appartiene di fatto alla cultura europea: da Dürer, Bosch, Breugel, a Lautrec, Gauguin, Cézanne e i Preraffaelliti. È alla complessità di questa formazione che si deve peraltro l’assoluta originalità della sua opera, originalità che gli ha consentito di elaborare uno spazio autonomo rispetto ai suoi grandi contemporanei: Beardsley, Rops, Moreau, Redon, con cui condivide la maggior parte delle tematiche.
Questa cultura artistica, simbolista, è da sempre quella che, insieme al manierismo, ho sentito più vicina ai miei gusti ed alle mie esigenze. Non mi sfuggono, credo, i limiti di questa cultura, ma ne ho sempre amato la ricchezza, esplicita, delle componenti letterarie e delle inquietudini intellettuali. Di qui, in particolare, la mia preferenza per il Martini illustratore: Nerval, Rugo, Verlaine, Rimbaud, Mallarmé, Shakespeare, Dante, e soprattutto Edgar A. Poe. All’opera di Poe, conosciuta attraverso la traduzione di Baudelaire, Martini ha dedicato una lunga serie di disegni a china (134, con i titoli in francese) ottenendo alcuni dei suoi esiti più alti, e sicuramente quelli che mi hanno maggiormente affascinato, per il loro carattere misterioso e visionario: “vivevo e disegnavo “, commenta egli stesso, “in preda ad una foga febbrile”. Di fatto non compie pura opera di illustratore: il mio immaginario visivo al riguardo, è assai diverso, e si avvicina di più a quello di Ensor, per esempio, ma indubbiamente Martini è stato in grado di offrirci una sorta di continuazione del discorso onirico dello scrittore americano, creando un poema visivo di un fascino non meno vertiginoso.
Marco Lorandi, cui si deve interamente il merito di questa mostra, ha saputo cogliere nella sua lunga frequentazione dell’opera di Martini alcuni dei suoi temi più affascinanti: l’erotismo (Carezze), il macabro, il grottesco (II cuore di cera), declinati in infinite rivisitazioni, oltre alle tematiche surrealiste, fortemente presenti, senza peraltro che l’artista vi abbia mai aderito compiutamente. Se ci chiediamo, a questo punto, dove si debba rintracciare l’attualità dell’opera di Martini, e quindi di questa mostra, in un ‘epoca apparentemente così diversa e lontana per esperienze, esigenze e aspettative, a me pare che essa consista, al di là dell’arditezza estrema di alcune soluzioni grafiche, nel proporre, in sintonia del resto con l’intero Simbolismo europeo, l’esplicitazione dell’inconscio della contemporaneità, e contribuisca al suggestivo recupero di un rimosso della nostra epoca.
Alberto Castoldi
Rettore Università degli Studi di Bergamo