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Con L’inganno di Proteo, Romano Gasparotti ci invita a “riscoprire l’essenza musaica della filosofia”. Ovvero a fare esperienza delle questioni che “una filosofia tornata nel grembo delle Muse” impone.
Il discorso di Gasparotti impone di andare ben oltre l’idea di una mera alleanza tra pensiero e arte: giunge a richiedere alla filosofia di non negarsi all’esperienza poetica, facendo così appello a un filosofare “musaico”. Il riferimento a Heidegger e alla sua denuncia del pensiero oggettivante e calcolante, realizzatosi con il trionfo della tecnica, è evidente. Non meno espliciti sono i riferimenti a Husserl, il primo filosofo che nel pieno dell’epoca dei totalitarismi denuncia la krisis della filosofia e delle scienze europee; a Severino, il pensatore che con lucidità mette in evidenza i danni provocati dalle astratte specializzazioni dei saperi scientifici sull’umanità; a Derrida, che denuncia la totale chiusura del nostro tempo alle leggi dell’ospitalità, alla pura eventualità dell’evento.
L’uomo europeo, registra Gasparotti, fa la sua comparsa nella “terra del tramonto” come un essere perennemente esposto all’errore e intimamente necessitato alla continua metamorfosi. Un essere che riconosce come suo archetipo proprio la figura di Proteo, il Vecchio del mare che sta all’inizio di tutto, caratterizzato dall’“incertezza” e capace di diventare, secondo Omero, “ogni cosa che in terra si muove”. Proteo incarna una delle più originarie forma di sapere: quella che consente un molteplice sguardo; quella che fa registrare a Pindaro: “Ciechi sono i pensieri degli uomini, quando cercano la via con gli artifici dell’intelligenza, ma senza le Muse”; annunciando così che la compagnia delle Muse è la sola che consenta agli uomini di andare incontro, danzando, all’invisibile armonia.
(dalla postfazione di Flavio Ermini)