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Una locandiere intrattiene il suo ospite, gli racconta del proprio lavoro, di ciò che avviene dentro quel luogo di incontri e di “soste”. Ma l’ospite è il lettore stesso e la locanda è qui metafora del setting psicoanalitico, occasione per un conversare privato e complice, teatro di pensieri e passioni: un po’ chiacchiera, un po’ resoconto, un po’ scambio di emozioni.
Nel dialogo si introduce poi un’altra voce, quella di una “cittadina”, alter-ego dell’autrice, che si rivolge solo alla locandiera. È la voce del Logos, la testimone del mondo sociale e scientifico, voce consapevole che sa ascoltare, tenere il timone, frenare la protesta per il dolore di cui la locandiera è quotidianamente testimone.
Questa insolita teatralità, composta in una scrittura fra saggistica e biografia, ci racconta così del tentativo di evadere da una trattazione gergale dell’avventura terapeutica: tentativo di far cadere la diffidenza e le resistenze verso la psicoanalisi, per far nascere il desiderio di quell’incontro.