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La nuova raccolta di Maria Grazia Maiorino, è un testo sfaccettato e ricco di immagini che testimoniano un inesausto bisogno di ripensare alla propria vita, di misurarne la consistenza, di vagliarne le contraddizioni segrete e di riconoscerne gli spiragli intermittenti di bellezza. Benché il passo dei versi si sposti tra spunti, visioni e forme molto varie, tra ricordi altalenanti, tra figure di mare e di terra, una sorta di segreta ansia sembra, all’inizio, intridere la voce dell’autrice: spesso i suoi pensieri tendono a “sentieri irraggiungibili”; alcuni luoghi del suo passato assomigliano a “stanze vuote lavate dal pianto”, e le sue mani, a ripensarle ora, si rivelano “troppo piccole” per le carezze che avrebbe voluto offrire a chi invece è fuggito altrove, chissà dove, chissà perché. Di fronte a questo vacillamento intimo i ricordi sbandano, rischiano di smarrirsi. Eppure qualcosa come un risveglio spirituale si è compiuto, a un certo punto, nel cammino della poetessa, e la raccolta sa testimoniarlo con poesie e prose poetiche di rara intensità. Lo sguardo di chi scrive, allora, comincia a inarcarsi verso il cielo, verso la scala di Giacobbe, verso “la via / dove abita la luce”. Il bisogno radicale di sentieri “altri”, di incontri con la madre di Dio o con grandi spiriti di artisti accende le partiture testuali e le fa vibrare come nel “risvegliarsi di un canto” angelico. Ciò che la vita non ha dato rinasce come il “giardino di una sconosciuta libertà”: il dolore di essere stata abbandonata da un sogno d’amore diventa la gioia di abbandonarsi a tutto ciò che viene come in una danza, in un dolce esercizio acrobatico o in una trance mistica.