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Mitografa e saggista, Gabriella Cinti cerca di calarsi nello sguardo degli antichi, scavando nelle parole, mettendo a confronto echi e assonanze, sforzandosi di rivivere, nella profondità della coscienza, ciò che filosofi come Nietzsche e Heidegger o studiosi come come Kerényi e Walter Friedrich Otto hanno portato alla luce nei loro scavi archeologici per entro un immaginario quasi del tutto sprofondato nelle lontananze più remote.
Il titolo del primo Inno (perché alla tradizione innodica si riallaccia), Madre del respiro, che dà il titolo anche all’intera raccolta, riproduce per campate anaforiche quella forma di invocazione che veniva elevata collettivamente nel tempio in modo da restare perennemente nella memoria collettiva. “Madre del respiro … Madre del sorriso … Madre delle stelle … Madre degli occhi … Madre del senso … madre dell’azzurro … Madre della scintilla prima … madre dell’essenza”.
Sono parole che l’io poetante può pronunciare a buon diritto nella consapevolezza della propria irrevocabile modernità. Si tratta di una voce che, riallacciandosi, io credo, alla tradizione ermetica, scandisce nelle sillabe allitteranti e/o dissonanti, unicamente – diceva Montale – «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», portando la melodia del verso a una tensione tale da deformarla nell’insensatezza del grido.
dall’introduzione di Alberto Folin