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Giugno 1924, viene rapito e assassinato il deputato Giacomo Matteotti. Sono novant’anni. Nel poemetto La casa dei martiri, Alberto Bellocchio – attraverso un’ampia carrellata che comprende il biennio rosso, il biennio nero, l’epopea del Milite Ignoto, gli arditi del popolo, la marcia su Roma, fino al tragico epilogo dell’uccisione di Matteotti – descrive la drammatica parabola che vive il nostro paese, scosso dalla carneficina della guerra del ’15 e destabilizzato dallo scontro tra offensiva proletaria e la montante violenza nazionalista.
La rivoluzione – profetizzata e promessa dai capi del proletariato accecati dalla prospettiva dei soviet – Mussolini la fa. Allo scopo getta spregiudicatamente sul piatto anche i martiri della sua parte; ogni città avrà una Casa dei martiri, tempietto di culto dove sono venerati come eroi risorgimentali.
Con l’eliminazione di Matteotti, il fascismo pone le basi per il passaggio dalla democrazia rappresentativa alla dittatura.
Un’opera politico/celebrativa? Tutt’altro. Alberto Bellocchio osserva e racconta da una doppia visuale: quella commossa e partecipe della luttuosa caduta degli ideali del sole dell’avvenire; e quella di un’Italia che, scossa e disorientata, accetta il “santo manganello” e si consegna a chi promette ordine. La pacificazione degli animi propagandata dal duce convince e vince.
Matteotti dovrà attendere vent’anni per rialzare il suo sguardo appassionato e intransigente, per riprendere parola e azione.