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Il convegno di cui qui si pubblicano gli atti è stato dedicato alla memoria di Gianpiero Cavaglià, professore associato di lingua e letteratura ungherese a Torino e, come ha scritto Cesare Cases in un ricordo di lui pubblicato su «L’indice», uno dei più brillanti e promettenti comparatisti italiani. Gianpiero Cavaglià coltivava la letteratura comparata sia nel suo senso più tradizionalmente italiano -con puntuali confronti tra autori, movimenti letterari, storia civile -sia nel suo più popolare senso anglosassone, come una riflessione estetico-filosofica sull’esistenza umana quale si conosce e si rappresenta nella letteratura e nella poesia. E su tale terreno, oltre che su quello di un legame privato strettissimo, durato quasi venticinque anni e interrotto solo dalla sua morte, che gli sono stato vicino e ho imparato da lui cose decisive per il mio personale lavoro filosofico. Difficile riassumerle e valutarne l’importanza: ricorderò solo il suo modo di leggere, anche contro una certa vulgata dominante, le opere di Hofmannsthal, di cui assumeva come filo conduttore la pagina sull’effetto Potëmkin. Un vero piccolo tesoro di idee e di visione della vita, la tesi hofmannsthaliana; che cioè i contrasti, i conflitti, l’irrazionale, sosteneva lo scrittore austriaco, non si dovrebbero scavare, drammatizzare, cercare di risolvere definitivamente (sempre l’ultima guerra per eliminare tutte le guerre!) – ciò che tanto pensiero e azione, anche politica, avevano preteso di fare, spesso sanguinosamente, nel nostro secolo – bensì celare dietro facciate dipinte che ne allevino la gravita, anche con un atteggiamento di distacco ironico. Gianpiero Cavaglià, che pure ha vissuto personalmente la tragedia di una lunga malattia ancora senza cura, e lo sapeva, era tutt’altro che un pensatore tragico. Mi ha sempre ricordato, in ciò, una pagina di Ernst Bloch (nella prima edizione del Geist der Utopie, se non sbaglio), dove Bloch dice che Gesù non somiglia a un eroe tragico, ma piuttosto a un clown, comunque a un umorista; come quell’uomo moderato di cui parla Nietzsche quando cerca di definire il suo Übermensch, che ha la forza di esercitare anche verso se stesso e l’uomo in generale un certo ironico, ma amichevole, distacco che non si abbassa mai a divenire disprezzo o rassegnazione. Poiché su tutte queste eredità teoriche di Gianpiero sto ancora meditando, e anzi ne vivo, oltre che coltivarne un fortissimo ricordo affettivo, non posso “celebrarlo” con un testo che si pretenda in qualche senso “definitivo”. Mi rallegro però con l’iniziativa degli amici, che, riprendendo talvolta tematiche letterarie e filosofiche a lui tanto care, contribuiscono con questi saggi a mantenerne viva la lezione, per tanti versi straordinaria.
Gianni Vattimo