| Il Tridente Saggi |

pagine : 280
dimensioni : 14,5x21
prezzo : € 22,00
ISBN : 9788871864792
Anno di pubblicazione : 2011



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Eva Pattis Zoja
Curare con la sabbia
Una proposta terapeutica in situazioni di abbandono e violenza
 
Con dvd. 



Fra le psicoterapie, il ruolo dell’expressive sandwork può corrispondere a quello della cosiddetta Arte povera tra le arti visive. Ciò che appare umile e semplice non lo è affatto. Scartando il superfluo, questo lavoro seleziona l’essenza: anche togliere si rivela parte di un’operazione artistica.

Ma cosa è essenziale nel processo psicologico?

Freud deve essersi domandato qualcosa di simile, quando nel 1918 promosse nuove istituzioni che avrebbero fornito analisi gratuite: il Policlinico di Berlino e l’Ambulatorio di Vienna. In seguito (1928)  Margaret Lowenfeld, l’iniziatrice delle terapie con la sabbia, aprì la Clinica per Bambini Difficili in un quartiere operaio di Londra. Per i fondatori era sottinteso che il nucleo della psicoanalisi dovesse raggiungere tutta la società: «…Il povero ha diritto all’assistenza psicologica né più né meno di come ha già ora diritto all’intervento chirurgico che gli salverà la vita.» (Freud 1918)

Qui si raccoglie quel filo e con esso si tesse una tela multipla. Sull’ordito composto dai concetti di Jung, la World Technique di Margaret Lowenfeld e la Sandplay Therapy di Dora Kalff operano intrecciate, mentre i fili conduttori di Lacan, Winnicott e Daniel Stern rafforzano la trama.

Nella pratica l’expressive sandwork è costituito da processi immaginali ed è stato elaborato da analisti junghiani attraverso esperienze transculturali in Africa, Cina ed America Latina. Con l’aiuto di volontari, a partire dal 2000 è stato sperimentato in località che non dispongono di nessuna forma di psicoterapia e sono state devastate dalla violenza, da catastrofi naturali, da situazioni croniche di abbandono.

In condizioni così disastrose, può essere utile un intervento psicologico? Non bisognerebbe iniziare dall’alloggio, dal nutrimento e dall’istruzione? Questa domanda sottintesa percorre il testo e riceve sorprendenti risposte.

Samuel, in cui si riconosce ancora una traccia di buona educazione, è sul punto di andare a fondo nella baraccopoli di Johannesburg: ma non può tornare a Limpopo, dalla famiglia che gli aveva affidato ogni risparmio e speranza di riscatto. Solo quando costruisce nella sabbia la capanna rotonda col tetto in paglia delle sue origini, tornano il ricordo della iniziazione tribale ricevuta a 12 anni e la reazione orgogliosa di allora.

Juan, che vive in un barrio di Bogotà, non riesce a giocare nella sabbiera con le figurine. Conosce solo l’uso del coltello e pugnala gli animaletti di plastica. Ma gradualmente la sua aggressività, una volta presa questa direzione, non si indirizza più agli altri bambini.

In un asilo cinese, Wan non parla. Finalmente, con un’immagine nella sabbia, rivela il suo segreto: ha un fratello, anche se deve fingere che non esista. Nessuno ne può parlare perchè le pene per aver infranto l’obbligo del figlio unico sarebbero troppo dure per la famiglia.

La sabbiera come mezzo terapeutico: perchè?

«La sabbia si comporta come un apparecchio di ricezione molto sensibile, che registra il minimo movimento con precisione, come se milioni di granellini fossero pronti a “origliare”. A poco a poco, anche la percezione di questa atmosfera concentrata finisce per influenzare i gesti di chi vi lavora. Attraverso le sue mani impara ad “origliare” dentro di sé qualcosa che prima gli era sconosciuto».

Il libro è indirizzato a psicologi, educatori, psicoterapeuti, assistenti sociali e soprattutto a volontari che vogliono offrire aiuto, ma sanno che la buona volontà da sola non basta.