pagine 185 | prezzo 16,00€ | cm 14,5x21

L’interstizio ha una caratteristica precisa: tiene insieme la realtà, il ricordo e la fantasia, intreccia gli aspetti micro e macro della storia umana. Questo volume si occupa dei piccoli anfratti urbani raccontandoli attraverso una operazione di scavo in profondità, oltre la patina dell’ovvietà. Interstizi sono i cortiletti che si celano dietro ai portoni socchiusi, sono i brevi tratti di un antico portico che ci riporta alla mente un episodio cruciale della nostra vita, sono gli arredi urbani dimenticati: le ringhiere traballanti di una scalinata, una vecchia insegna di un negozio che non c’è più; sono le minuscole tracce cittadine di arte religiosa e di devozione verso i defunti – una madonna con bambino Gesù che troviamo in un altarino incassato nel muro di un palazzo del centro dinnanzi al quale amiamo sostare per un rapida preghiera –. Situazioni che non sempre saltano immediatamente agli occhi ma vanno ricercate e forse solo se vissute in prima persona possono diventare rilevanti. Quando si parla di interstizi è naturale riferirsi ad una figura come il flâneur – e ovviamente anche alla versione femminile: la flâneuse – perché questo personaggio, nato a metà ottocento, rielaborato nella prima parte del ‘900 e oggi tornato prepotentemente al centro della riflessione in vari ambiti disciplinari, rappresenta l’arte del perdersi nella città e dunque di entrare in rapporto con gli angoli più reconditi e le fenditure a prima vista più insignificanti e banali del contesto urbano. Egli è l’emblema di un riscatto, delle piccole cose che si fanno grandi in quanto nascondono in se stesse un valore inestimabile. Gli intersitizi, infine, presentano anche un tratto sociale e politico laddove sono occasione di controllo da parte delle istituzioni ma anche di emancipazione e libera espressione per vari segmenti della popolazione, compresi quelli più deboli.


 
pagine 168 | prezzo 16,00€ | cm 14,5x21

«Se soffri, adopera il tuo dolore […] e delle litanie puoi fare un bordone alla melodia – improbabile – delle sfere» – scriveva così Giorgio Manganelli, il 23 gennaio del 1961. Pierre Fédida, d’altro canto, rifletteva: «Forse l’assenza è l’opera d’arte».

Psicologia analitica, psicoanalisi, fenomenologia, neuroscienze, musica e poesia rappresentano, in questo saggio, differenti posture d’ascolto, per tentare di esplorare l’assenza come condizione dinamica di trasformazione del dolore.

Alternando un linguaggio immaginifico a uno più teoretico, l’autrice riflette sulle multiformi possibilità di metamorfosi della perdita: giochi aerei di densità permettono di trasfigurare la drammaticità della sofferenza in leggerezza e, in definitiva, in arte. Il dolore è considerato come un insieme di discontinuità, connaturate all’esistere, che contribuiscono a plasmare quel senso di ineffabile continuità che chiamiamo “Io”.

La prima parte del saggio è strutturata come una suite di componenti dell’assenza: iconiche, lessicali, esperienziali, fenomeniche e dinamiche; la seconda parte, invece, ne ricerca una declinazione applicativa attraverso il concetto di densità. Si tenta di far dialogare alcuni contributi storici della psichiatria fenomenologica con la psicologia analitica di Carl Gustav Jung.

L’ouverture di Emanuele Trevi introduce il saggio sotto forma di risonanza tematica; Il museo del silenzio propone una variazione estatica dell’assenza, in relazione all’esperienza mistica di poeti, santi e uomini dal multiforme ingegno, come Ulisse, osservato da Franz Kafka mentre resiste al silenzio delle sue sirene.