pagine 176 | prezzo 12,00€ | cm 14,5,x21

C’è un itinerario nel raro prisma di luce che articola questo bel libro di poesia, un viaggio che non prescinde da quanto è remora al Bene – la caproniana e ricordata res amissa – e può assumere il minaccioso aspetto di un mare in tempesta. Ma l’Arca è lì, nella solidità della sua ingegneria e dell’amore che la muove; lì è la zattera degli esuli che hanno in sorte di sfidare il destino. Ma anche di toccare terra, dove carico di anni attende il padre. Sono figure che non si dimenticano, segnano il cammino, e chiamano a riflettere il poeta «nel plico / di calma coltivata mentre intorno / si sfogliano e cadono i giorni».
Autore di profonda cultura classica, radicato in un Novecento betocchiano, forse ancor più che luziano, Matteo Munaretto ci regala il libro della sua maturità poetica conducendoci con mano ferma e leggera nella “dimora luminosa delle cose”, delle stagioni che ad esse conferiscono i colori, delle idee e degli affetti che ci salvano, fino al miracolo di un paesaggio eloquente per nitore ed esattezza di una versificazione con pochi confronti nella poesia italiana di oggi. Il suo fraseggio, di incantevole musicalità, è infatti nutrito da non comune freschezza metaforica ed eleganza sintattica, affabilità e sprezzatura. E la parola, che cresce in profondità, muove confidente alla radice prima dalla quale ogni cosa prende luce e su cui è dato scommettere, foss’anche quia absurdum: «il cuore – / sì, proprio lui, che vittoria / può mai esserci se non di lì? –». Dalla quarta di copertina di Marco Vitale.

Matteo Munaretto vive e lavora a Pavia. Dottore di ricerca in Filologia Moderna, ha collaborato con l’Ateneo pavese per l’insegnamento di Letteratura italiana moderna e contemporanea; autore di studi sull’opera di Clemente Rebora e di Mario Luzi, è uno dei migliori esponenti della giovane poesia italiana.
Ha pubblicato, entrambi per Interlinea, Arde nel verde (con prefazione di Fernando Bandini, 2010), e Il cielo è dei leggeri (2016).


 
pagine 184 | prezzo 18,00€ | cm 14,5x21cm

La lezione della pandemia, il frenetico agire in funzione di un problema di cui non si conosce la soluzione, ha messo in luce la necessità di un ripensamento globale della Sanità pubblica rispetto alle richieste di salute di oggi. Molti fattori già da tempo, in tutto il mondo, di fatto reclamano una trasformazione dei sistemi di cura nei vari Paesi. Tra i più urgenti, comuni a tutti, c’è per esempio la presenza in maggioranza di donne che curano, che sono già la workforce dei prossimi anni. Portando con sé, insieme alle sfide ambientali, per le mutazioni drammatiche del rapporto tra ambiente e salute, tra sviluppo e rispetto della terra, una diversa organizzazione del lavoro, che influenzerà anche la relazione con i luoghi di cura, che ne verranno sperabilmente modificati. Tutto questo reclama fin da ora proposte per una agenda di trasformazione sanitaria in profondità, e pari alla crisi di management in atto. Sarà il momento di rivalutare non solo le condizioni di cura, ma anche le reti e l’adeguatezza degli ospedali, cioè gli umani spazi di cura per chi si ammala. È necessario riflettere sulla ri-costruzione del concetto di continuità tra salute e malattia, tra cura e benessere, tra territorio e ospedale, tra vita e morte. Riconducendo “a casa” le ragioni della strategia di contenimento dell’infezione: abbiamo visto che in Cina la casa è stato il primo luogo di cura che ha permesso di evitare l’aggravamento e limitare i ricoveri in ospedale, ma era piuttosto il sistema sanitario che elasticamente si muoveva da e tra differenti emergenze e necessità.

Sandra Morano è specialista in Ginecologia e Ostetricia ed è stata docente presso l’Università di Genova. Nel 2000 ha creato la prima Casa di Maternità Intra-ospedaliera in Italia presso l’Unità Operativa di Ostetricia e Ginecologia dell’Azienda ospedaliera S. Martino IST di Genova. È coordinatrice dell’Area Formazione Donne dell’ANAAO-Assomed e dell’Accademia “Le Mediche” nella Fondazione Scuola di Alta Formazione Donne di
Governo.