pagine 272 | prezzo 20,00€ | cm 14,5,x21

Cinquant’anni fa iniziava all’Ospedale Psichiatrico di Arezzo, diretto da Agostino Pirella, una rivoluzione silenziosa ma capace di ridare vita, dignità e speranza a quel luogo di morte, cambiando per sempre la storia della Psichiatria in Italia. L’autore di questo diario, giovane psicoanalista junghiano, nel contatto quotidiano con l’istituzione scopre con fatica che i suoi strumenti teorici non sono adeguati a capire quella realtà. Inizia a confrontarsi con la follia “a mani nude”, accetta di “perdersi” in una situazione dove tutto è rovesciato: insieme con l’Istituzione ognuno deve cambiare, “da Pirella all’ultimo degente”. Da queste pagine emerge con forza documentale l’intreccio tra vissuti, meccanismi istituzionali, diversità culturali e politiche. Paolo Tranchina racconta la gioia di far parte di un progetto collettivo in cui il dialogo con la psicosi si apre ben oltre i codici della psicoterapia, e lo fa attraverso la coralità di storie che ancora ci stupiscono e ci emozionano. È la preziosa testimonianza di una delle imprese più nobili e coraggiose della nostra storia recente.

Paolo Tranchina, (1938-2019), psicologo analista specializzato all’Istituto Jung di Zurigo, ha lavorato a Milano, ad Arezzo, a Firenze e poi presso l’Osservatorio Epidemiologico della Regione Toscana. Fondatore della rivista “Fogli di Informazione” e dell’associazione “Psicoterapia Concreta”, è autore di Norma e antinorma (1978), Il segreto delle pallottole d’argento (1984), Un sagittario venuto male (1998), Inconscio Istituzionale (2006), Afrodite. Storia e Psicologia di un mito (2011).


 
pagine 192 | prezzo 24,00€ | cm 14,5,x21

Che figura polimorfica, Paolo Lagazzi, questo latitante con la lanterna, sapiente che non inveisce ma inventa. Un giorno bisognerà scriverne una biografia immaginaria, sul gusto di Marcel Schwob, sulle elitre di una duna, a cavallo del drago: Lagazzi è un rocker e un illusionista, ha unito lo scibile emiliano ai sortilegi dell’haiku, la fiaba ai velami del Tao, Attilio Bertolucci e Lao-Tse, il trucco e il mito. Per mettere un po’ di salnitro a questo libro, che è, come sempre, un diorama sulla china del Centauro, pagine che vegliano sul labirinto, concime per il mostro, immagino al fianco di Hermes, “il dio dei viandanti e del messaggio” – secondo la mitologia per enigmi di Rainer Maria Rilke –, Dioniso che “contemplando la propria immagine” nello specchio forgiatogli da Efesto “si slanciò alla fabbricazione di tutta la pluralità” (Proclo) e Orfeo che “con la sua voce condusse ogni cosa nella gioia” (Eschilo). Lo specchio, la voce: figure di illustre illusione, ricami verbali tra le ombre. A queste figure sommo – per devianza – quella di Davide, il re ragazzo che svolge la cetra in fionda, e viceversa: poesia che sa sedurre e che uccide.
Giocando – perché il creato accade per gioco, con intrepida naturalezza e trepidante ingenuità – Lagazzi si è dato il compito di togliere le usurate vestigia alla letteratura. Ne ha conservato il prestigio, il bagliore dietro l’inganno, lo stupore oltre l’illusione. Norman O. Brown, fautore di “un cristianesimo dionisiaco”, diceva che i libri esistono in virtù del loro “elemento magico” e che “amare è trasformare; essere un poeta”. Dopo il prestigio, l’oggetto scomparso non torna esattamente quale era prima: chi lo osserva non è ciò che era quando è sparito. La metamorfosi è ovunque – oppure, se preferite, la conversione.

Davide Brullo


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