Una visita agli affreschi di Giotto, che introduce con tono narrativo il percorso di questo libro, offre lo spunto per interrogarsi sul senso ultimo dell’arte tra conoscenze storico-filosofiche e percezione spontanea delle qualità estetiche. Cercando indizi circa le origini dell’arte, e ponendo ipotesi sulle esigenze primarie da cui hanno preso corpo le prime forme espressive, emerge con una certa evidenza una necessità di potenziamento  e di unità; da una parte con una intensificazione di forza e vitalità, e dall’altra con l’unificazione di elementi diversi del linguaggio simbolico.

L’arte sembra rispondere a un istinto primordiale necessario per riportare la coscienza dell’uomo a quell’unità e vitalità che, sin dalle origini, le sue facoltà razionali e pratiche dividono e indeboliscono. Queste evidenze antropologiche che emergono dall’osservazione di ritualità e attività espressive delle culture naturali e arcaiche, sono arricchite e corroborate dalle teorie di quei filosofi che vedono nell’arte il  “rimedio” per una riconquista dell’integrità.

Nicola Vitale, muovendosi tra l’esperienza dell’artista e del fruitore con riferimento costante ad un affresco di Giotto, traccia una mappa della struttura originaria dell’arte, disegnando una sorta di “fisiologia” della pittura, cogliendo nell’attività pratica dell’artista l’attivarsi di diverse funzioni psichiche in una progressiva coordinazione unitaria.

Questo archetipo dell’arte tracciato con nitore, tocca a tratti i temi tradizionali dell’estetica, ma lo fa sempre in autonomia, partendo dall’esperienza concreta. L’impiego di alcune categorie junghiane, utili a mettere in evidenza tali passaggi, esula tuttavia da un’interpretazione psicoanalitica dell’arte; emerge piuttosto il carattere “prospettico” dell’esperienza estetica, la cui percezione si sviluppa, nei diversi osservatori, da un punto di vista soggettivo verso un orizzonte di conoscenza universale che apre a una sfera più ampia di rivelazione. E’ una progressiva conquista di quel lato oscuro che, secondo Jung, in ogni personalità è relato alle funzioni psichiche meno sviluppate e coltivate, processo che egli definisce individuazione e che sembra essere un aspetto centrale di quell’attività umana imprescindibile che chiamiamo arte.


 
pagine 148 | prezzo 15,00€ | cm 14,5x21

In una specie di casa-deposito, Katrin, Usov, Suri e Van si trovano a vivere la loro condizione di parlanti. Sono esseri comuni qui chiamati Tolki.  Chi sono i Tolki? Penso a un Tolki come a un parlêtre, un essere marchiato dal linguaggio. Parlêtre è un neologismo di Lacan che fonde indissolubilmente l’essere al linguaggio, nell’atto della pronuncia. Vedo i Tolki come esseri che nello scontro con la poesia assumono su se stessi il peso d’una lingua povera, dura come una colpa, leggera come una liberazione. (Ida Travi)

 Ida Travi introduce un ulteriore scorcio della sua poesia per personaggi e traccia al presente un luogo tanto immaginifico quanto materiale dell’esistente. Le sue creature stabiliscono un’occasione unica nel panorama poetico contemporaneo; diventano esse stesse il passaggio verso la profondità di una storia che è anzitutto la loro. (Dalla postfazione di Alessandra Pigliaru)

 A partire da Tà, Poesia dello spiraglio e della neve, procedendo attraverso Il mio nome è Inna e Katrin. Saluti dalla casa di nessuno, Ida Travi ha fondato ciò che ho avuto modo di definire “nuova mitologia contemporanea”, inaugurando così  il ciclo di un’epopea postmoderna che narra non le lunghe gesta di grandi eroi, ma i gesti brevi di chi semplicemente è sopravvissuto. (Luigi Bosco, www.poesia2.0.com)