pagine 168 | prezzo 15,00€ | cm 14,5x21

L’infanzia e l’adolescenza, risorgenti in noi durante l’intera vita come un sogno, sono la radice stessa dell’esistere. Spesso non si sa dove e come si siano nascoste, se mai ci siano state. Spesso ci richiamano, in un alternarsi di luce e buio significativi. È il tempo in cui intuiamo e pratichiamo l’essenza stessa di ogni cosa e ci nutriamo della gioia e dei più profondi dolori. È anche il tempo in cui ci si guarda e si riflette: ogni istante diventa uno specchio – nei rapporti con la natura, con le persone, col nostro corpo. Non c’è nessuno a cui riferire le nostre emozioni, le esperienze. Sentiamo che non saremo capiti. Abbiamo una precoce sensazione dell’inadeguatezza degli adulti, soprattutto nelle nostre esperienze più profonde. Scrive infatti Adele: «Come avrei potuto spiegare a mamma (…) che il mio corpo era diventato “i miei corpi”: uno sopra, come una nuvola, e uno sotto, immobilizzato?». È quello anche il tempo in cui si vedono i fantasmi, si sentono le voci, si prevede il domani.

Adele tratta il tutto con il distacco, e quindi l’ironia, di chi ha imparato a comportarsi in modo da non essere travolta da quelle prime umane vicende. Da questa sua ironia e dai rapporti infantili viene anche l’uso del toscano popolare che dà forma e colore a tanti passi del suo ricordare. Non a caso lei scrive che «La lingua toscana, forse più di altri idiomi materni, ti entra nel sangue attraverso il latte e ti segna a fondo». E, in un altro passo, conferma: «Avere radici toscane ha significato, per me, sapere e potere accorciare le distanze» con gli altri. Penso che qualcosa di simile possa accadere al lettore di questo libro.

Franco Loi

Milano, 10 febbraio 2013


 
pagine 224 | prezzo 18,00€ | cm 14,5x21

Settembre 2016

Nel XIX secolo nasce la poesia della modernità e Yves Bonnefoy ne traccia in questo libro il profilo. Lo delinea dialogando con i testi poetici di alcuni tra gli autori più significativi dell’Ottocento: da Poe a Baudelaire, da Mallarmé a Rimbaud, da Laforgue a Valéry, fino a Hofmannsthal.

La grande innovazione di questi poeti consiste nell’aver compreso che la scomparsa del divino dai significati e dalle figure della struttura linguistica non può determinare che vada anche perduto il senso della trascendenza. Ecco perché nei loro testi mantengono vivi entrambi questi aspetti conferendo alla poesia una natura completamente nuova, assolutamente inedita: una natura in grado di connettere l’infinitezza all’esistenza ordinaria.

Il compito al quale questi poeti non si sottraggono è di percepire nelle più semplici parole un residuo dell’originaria a-temporalità, dell’infanzia del mondo, quando l’invisibile era ancora visibile.

«Quant’è difficile» esclama Bonnefoy «condurre questa battaglia!». E non si può non concordare con lui osservando come nel XX secolo la poesia dell’Ottocento non abbia avuto molti eredi, avendo preferito strade meno ardue, più familiari. L’invito è chiaro: torniamo a fare attenzione a ciò che hanno scritto autori come Baudelaire e Rimbaud. «È in gioco la poesia» avverte Bonnefoy.

 

Dalla postfazione di Flavio Ermini